Le truppe paracadutiste tedesche

L’impresa militare più degna di nota fu indubbiamente quella effet­tuata dal DC paracadutisti delle Waffen SS che il 25 maggio 1944 tentò di catturare il capo dei partigiani jugoslavi Josip Broz detto «Tito».
All’inizio del 1944, il maggiore Otto Skorzeny fu convocato al­l’OKW dove gli venne ordinato di approntare un progetto inteso alla cattura del capo partigiano jugoslavo, la cui organizzazione militare, forte di diverse decine di migliaia di uomini, ar­recava grave disturbo all’apparato militare tedesco nei Balcani, impegnando diverse divisioni per poter controllare il difficile territorio montuoso e boscoso della Jugoslavia.
Skorzeny, che aveva al suo attivo molti riusciti colpi di mano, si mise al lavoro costituendo uno speciale ufficio a Zagabria e crean­do in tutta la Jugoslavia una fitta rete di informatori dai quali riceveva quotidianamente notizie sull’attività partigiana. Attraverso un meticoloso filtraggio di osservazioni e di riferimenti si riuscì a loca­lizzare la sede del comando di «Tito» in due o tre punti del ter­ritorio, finché il lavoro di ricerca, basato su più dettagliate infor­mazioni, non faceva convergere su una determinata località l’attenzio­ne del Sonderkommando «Skorzeny»; la notizia scadeva successi­vamente d’interesse poiché nel frattempo l’inafferrabile «Tito» si era già spostato in altra, sconosciuta località.
Fu un lavoro improbo che tenne occupato per alcuni mesi Skor­zeny e i suoi collaboratori, finché ai primi di maggio tutte le infor­mazioni ricevute e accuratamente vagliate si accentrarono su una precisa località della Bosnia occidentale: la cittadina industriale di Dvar.
Infatti «Tito» col suo quartier generale mobile si era spostato nei pressi di Dvar unitamente ad alcuni membri di una missione mili­tare inglese incaricati di coordinare i rifornimenti di armi e muni­zioni che copiosamente giungevano via mare o dal cielo mediante aviolanci.
Dotato di notevoli mezzi a disposizione per condurre a termine l’impresa, il Sonderkommando «Skorzeny» passava all’esecuzione pratica dell’operazione, che riceveva in codice il nominativo con­venzionale di «Sprung Fohlen». Dovevano partecipare all’operazio­ne il DC battaglione paracadutisti delle Waffen SS e alcuni reparti della divisione «Brandenburg», nominativo di copertura di una spe­ciale unità particolarmente addestrata ad azioni nei territori occu­pati e i cui componenti avevano effettuato numerose missioni, dal­l’Africa Settentrionale (Algeria, Tunisia, Marocco) al Medio Oriente (Libano, Siria, Irak, Iran) alla Russia, mediante sbarchi dal mare e dal cielo oppure attraversando le linee nemiche con diversi travestimenti.
Per una forma di correttezza, Skorzeny tenne ad informare il comando militare germanico della Bosnia della prevista operazione, nell’intento di ottenere la dovuta collaborazione; ma la freddezza con cui venne accolta la sua richiesta lo lasciò alquanto deluso.
Tale comportamento era motivato dal fatto che tale comando stava preparando un’azione similare con grande spiegamento di for­ze e di mezzi e il cui inizio era stabilito per il 2 giugno.
Si trattava del solito antagonismo fra l’Abwehr e il Sichereit­dienst che si ripercuoteva ancora una volta negativamente sull’ese­cuzione dei piani militari. Infatti tra l’Abwehr (servizio informazio­ni militare) facente capo all’ammiraglio Canaris e il Sicherheitdienst (SD), organizzazione similare, ma più estesa particolarmente al cam­po politico, alle dirette dipendenze di Himmler, da tempo c’era un forte attrito e una grande rivalità che doveva culminare – verso la fine del conflitto – con l’uccisione dell’ammiraglio Canaris per rea­to di tradimento e con la completa sottomissione dell’Abwehr all’or­ganizzazione di Himmler.
Skorzeny comprese chiaramente che il piano approntato in gran­de stile dal comando della Bosnia era destinato al fallimento, poi­ché i concetti operativi classici avevano scarsa applicazione nella guerra partigiana, e i concentramenti di truppe avrebbero messo in allarme l’organizzazione partigiana e ne avrebbero provocato il dissol­vimento momentaneo; decise pertanto di agire d’iniziativa pre­cedendo l’inizio della grande operazione di rastrellamento.
Egli scelse fra i paracadutisti 200 uomini per l’attacco ini­ziale mettendoli al corrente del compito che avrebbero dovuto ese­guire; a un gruppo scelto di 20 uomini era affidata la parte più ri­schiosa dell’operazione: essi dovevano scendere per mezzo di alian­ti a brevissima distanza dal rifugio di «Tito», localizzato dalla ri­cognizione aerea. Sarebbe poi seguita una seconda ondata di para­cadutisti e di truppe della «Brandenburg», aviotrasportate con a­lianti, mentre contemporaneamente il resto della divisione doveva dirigersi con colonne motorizzate nella valle di Dvar per bloccarla da più direzioni.
La «Brandenburg» era accantonata in località insospettabili allo scopo di non creare allarmismo, ma avrebbe dovuto spostarsi al­la svelta per occupare le località previste non appena gli aerei a­vessero decollato verso la loro destinazione.
Alle prime luci del 25 maggio 1944, un gruppo di JU 52, par­tito dall’aeroporto di Bihac, lanciava su due zone i 200 paracaduti­sti, mentre tre alianti DFS 230 si libravano nel cielo perdendo rapidamente quota e dirigendosi verso il rifugio fortificato in cui a­vrebbe dovuto trovarsi il capo partigiano; la reazione dei partigia­ni, sorpresi dall’azione, fu inizialmente slegata, ma divenne sempre più coordinata; i due gruppi di paracadutisti attaccavano la cittadi­na da due lati, mentre il gruppo d’assalto aviosbarcato dagli alian­ti si riuniva e muoveva all’attacco del comando partigiano difeso da un forte gruppo di guerriglieri.
Il combattimento fu particolar­mente aspro ma, alla fine, i paracadutisti riuscirono a sopraffare la difesa penetrando a colpi di bombe a mano nel rifugio. Ma del ca­po partigiano non v’era traccia.
Infatti alle prime avvisaglie dell’attacco «Tito» aveva rapidamente abbando­nato il suo rifugio portandosi nei fitti boschi che circondano la i cittadina; solo due ufficiali inglesi trovati nei paraggi furono cattu­rati. I circa 2.000 partigiani che si trovavano nella zona reagirono all’attacco e nonostante il successivo arrivo dei rinforzi, che anda­vano a dar man forte ai paracadutisti, riuscirono a dividere gli av­versari in due gruppi assai distanti fra di loro. Per tutto il giorno infuriarono i combattimenti e un nucleo di paracadutisti si asser­ragliò nell’interno del cimitero, opponendo una tenace resistenza ai violenti attacchi partigiani jugoslavi. Nella notte un gruppo di titini indossanti uniformi tedesche appartenenti a paracadutisti ca­duti tentò con uno stratagemma di sorprendere i difensori del cimitero, ma fu scoperto dopo un colloquio a breve distanza ba­sato su alcune frasi specifiche di riconoscimento usate dai tedeschi.
Il mattino successivo l’aviazione tedesca intervenne con attac­chi a volo radente riuscendo a far allontanare i partigiani; tre JU 52 lanciarono rifornimenti a mezzo di paracadute; ma non appe­na l’offensiva aerea si allontanava i titini riprendevano gli attacchi. I paracadutisti resistevano sperando nell’arrivo dei reparti motoriz­zati della «Brandenburg» (molti i caduti da ambo le parti); nel pomeriggio del 26 i partigiani si ritirano nei boschi preannuncian­do in tal modo l’arrivo dei rinforzi, che sono stati notevolmente attardati da interruzioni stradali e da continui attacchi di altre bande partigiane del I Corpus.
L’operazione «Sprung Fohlen», nonostante le ottime premesse, falliva però nel suo scopo principale dato che «Tito» potè sal­varsi rimanendo occultato per tre giorni, finché fu prelevato da un C 47 dell’aviazione russa atterrato in zona sotto controllo partigia­no e di qui trasportato a Bari presso il comando dell’area del Me­diterraneo per colloqui con il gen. Wilson.

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